“Tante condanne per Fasher ma poi porte chiuse ai rifugiati”, la denuncia dell’italo-sudanese Kibeida

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ROMA – “Noi rifugiati sudanesi ci sentiamo abbandonati e discriminati dall’Italia”: questo l’appello di Yagoub Kibeida, cittadino italiano, giunto in Italia dal Sudan nel 2006 come rifugiato politico. Kibeida, che è project manager dell’Unione Nazionale Italiana per Rifugiati ed Esuli (Unire) con l’agenzia Dire traccia le sfide che i civili sudanesi devono affrontare: “In questi giorni si sta giustamente parlando tanto di El Fasher, ma in Sudan c’è il più grave conflitto al mondo e 25 milioni di sudanesi in tutto il Paese hanno bisogno di tutto”. Kibeida inizia citando la capitale dello stato di Nord Darfur, caduta in mano ai paramilitari delle Forze di supporto rapido dopo oltre 500 giorni di assedio, nell’ambito di una guerra contro l’esercito nazionale che prosegue da due anni e mezzo.”I miliziani- denuncia Kibeida- considerano gli abitanti dei collaborazionisti del governo e quindi saccheggiano, bruciano e uccidono. Al momento è impossibile sapere cosa stia accadendo laggiù né quante persone siano ancora vive – su una popolazione di circa 260mila persone – perché internet non funziona. Abbiamo rifugiati in Italia originari di El Fasher che da giorni hanno perso i contatti con familiari e amici”.

“PRATICAMENTE IMPOSSIBILE” PER I RIFUGIATI OTTENERE IL VISTO PER L’ITALIA

Ma la guerra ha spinto alla fame 25 milioni di persone – circa la metà della popolazione – e secondo Kibeida, “il governo italiano non fa abbastanza per accogliere i rifugiati”. Il problema sono gli ostacoli burocratici: “Ottenere un visto per l’Italia è pressoché impossibile. Con lo scoppio della guerra, l’ambasciata a Khartoum è stata chiusa e le persone sono costrette ad andare nelle sedi di Kampala, in Uganda, dove però bisogna attraversare il Sud Sudan, altrimenti Addis Abeba, in Etiopia, oppure il Cairo, in Egitto”. Ai costi di viaggio e ai rischi, si sommano le spese per il visto d’ingresso in questi Paesi: “L’Egitto ad esempio ha chiuso le frontiere con il Sudan e il visto per quel Paese costa 1.800 dollari”. Spesso, per gli esuli sudanesi l’unica alternativa per accedere a vie d’accesso legali all’Italia sono delle agenzie private che curano le pratiche burocratiche, ma anche questo fa lievitare i costi. Neanche i ricongiungimenti familiari sono semplici: “I sudanesi che vivono già in Italia- prosegue Kibeida- riferiscono di liste d’attesa in prefettura di un anno, un anno e mezzo, per ottenere il nulla osta all’arrivo delle famiglie”.Senza vie d’accesso legale non restano che quelle “irregolari”. “Tanti giovani- avverte ancora il Project manager- stanno attraversando il deserto del Sahara e poi il Mediterraneo per raggiungere l’Europa, e non è raro che perdano la vita in questo viaggio pericoloso”.

“E’ UN GENOCIDIO MA NON CHIAMATELA GUERRA CIVILE: OSCURA GLI ATTORI STRANIERI”

Nel Sudan sprofondato nella guerra, che ha creato milioni di sfollati privi di reddito, sussiste anche un’altra minaccia: “Dal governo italiano sono arrivati appelli a tutte le parti al cessate il fuoco”, ricorda Yagoub Kibeida, “ma come project manager di Unire devo constatare che l’Italia non ha assunto una posizione chiara: si parla di guerra etnica e guerra civile, facendo ricadere le responsabilità sulla popolazione, quando in realtà ci sono tanti Paesi stranieri coinvolti a partire dagli Emirati Arabi Uniti, che non vengono chiamati in causa, nonostante tramite le Rsf si stiano appropriando delle riserve di oro del Sudan”. Abu Dhabi è accusata di finanziare e armare le Rsf, come conferma anche un report delle Nazioni Unite.

Ciò chiama in causa anche l’accusa di genocidio che anche il governo del Sudan ha rivolto agli Emirati, con una denuncia presentata alla Corte internazionale di giustizia e rilanciata da tanti giornalisti e attivisti sudanesi in questi mesi. Kibeida commenta: “Il modo in cui le milizie uccidono i civili – trattati da schiavi e razza inferiore – rappresenta di fatto un genocidio. Non bisogna però cadere nella trappola di considerare questo conflitto una lotta tra etnie locali”.Oltre ad azioni di diplomazia internazionale per porre fine al conflitto, Kibeida incoraggia infine aiuti per la popolazione: “Non ne stanno ricevendo abbastanza, eppure manca tutto. Per questo a Bruxelles ho istituito l’ong Global Aid Connection, con cui siamo riusciti a inviare il primo container di aiuti” conclude. “Proprio in questi giorni lanceremo una raccolta fondi”.

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