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Heysel, Boniek: “Ricordo sempre vivo, noi costretti a giocare: sembrava un lager”

Dall'Italia e dal MondoHeysel, Boniek: "Ricordo sempre vivo, noi costretti a giocare: sembrava un lager"

(Adnkronos) – “So benissimo che oggi è il trentanovesimo anniversario di questa drammatica notte di Bruxelles. Non si può, non posso dimenticare. Il ricordo, negativo nonostante la vittoria sul campo, è dentro di me e ci resterà per sempre”. A parlare all’Adnkronos è Zbigniew Boniek, ex della Juventus la tragica notte dell’Heysel in cui morirono 39 persone sugli spalti, e in campo con la Roma quando uno scudetto che pareva certo venne strappato all’ultimo dal Lecce retrocesso. Oggi, a 39 anni dalla strage più brutta del calcio, l’ex calciatore della nazionale polacca dice: “Quella tragedia mi colpì al punto che decisi di donare tutto il premio partita alla fondazione a sostegno delle vittime. Fui l’unico giocatore a farlo, sebbene quella, avendo già firmato con la Roma, fosse la mia ultima partita con la Juventus”.  

Sugli spalti la morte di trentadue italiani, quattro belgi, due francesi e un nordirlandese, il ferimento di 600 tifosi. Negli spogliatoi l’obbligo di muoversi, di scendere in campo. “Noi quella partita non volevamo giocarla – racconta ancora Boniek – Fummo costretti a uscire, ci dissero che il Liverpool e gli arbitri ci aspettavano. A quel punto sapevamo che non c’era una soluzione positiva. Se avessimo vinto significava che non ce ne fregava nulla dei morti, se avessimo perso che non li onoravamo. Una volta sul campo, da uomini, abbiamo deciso che l’unica nostra soluzione era vincere e ancora oggi sono strafelice che riuscimmo in quell’impresa. Mi dispiacque, anzi, che l’arbitro mi fischiò il calcio di rigore, perché avrei fatto gol”. 

E poi, di nuovo lo sconforto. “Mi sembrava di stare in campo di concentramento – racconta l’ex Juventus – quando la palla usciva fuori era anche pericoloso andarla a riprendere perché c’erano i rottweiller al guinzaglio dei poliziotti. Non posso dimenticare. Non si può morire così, non si può andare a guardare la partita della tua squadra amata e non tornare a casa. Ricordo benissimo che quel giorno allo stadio c’erano anche un padre e suo figlio, morti tutti e due, erano di Cagliari. E’ stato anche per questo che decisi di versare tutto il mio premio alla fondazione che si occupava di dare sostegno a chi aveva perso la vita”. (di Silvia Mancinelli) 

 

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